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ASPETTANDO LA QUINTA EDIZIONE...

 

 Proposte di finale

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Feldia (o Faida?)
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Feldia (o Faida?)


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MessaggioTitolo: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyMer Mar 20, 2013 12:24 pm

Ecco a voi il racconto "compattato" per intero. Chi vuole proponga il proprio finale a seguire Wink Mi raccomando, max 3000 battute ed entro domenica 24 Marzo!

La spiaggia era quella di sempre. I ciottoli neri che per tante stagioni erano stati testimoni della mia adolescenza ancora una volta luccicavano al chiarore della luna. Pochi minuti ancora e il sole dell’alba avrebbe accarezzato i nostri corpi stanchi ed assonnati, rannicchiati sotto il plaid colorato. Fredda era stata la nostra estate. L’ultima.
Stava finalmente terminando l’ultima notte delle nostre maledette vacanze: desideravo solo ripartire e scappare da lei e da quel piccolo paese calabrese della costa tirrenica dove mi ero sentito soffocare.
Tre settimane prima io e Flora, la mia ragazza di sempre, eravamo partiti da Orvieto con la speranza di ritrovarci.
Tre settimane di discussioni, di paure e di notti insonni.
Il sole iniziava ad essere alto. I miei occhi erano stanchi, gonfi per le lacrime versate tutta la notte. Flora, che non si dava per vinta, si strinse ancora più forte a me. Cercò le mie labbra per un improbabile bacio. Allora avvertii la sua disperazione dalle mani tremanti, le stesse che un tempo mi bastavano per essere felice. Un po’ alla volta, sentivo il suo abbraccio farsi sempre più debole e avere in sé il sapore della sconfitta e della delusione per un altro rifiuto. Sicuramente l’ultimo.
Basta, non resistevo più. Ormai non sentivo più niente per la donna che fin dagli anni del liceo avevo amato e desiderato più di qualunque altra, Dio solo sa quanto.
Ma la mia mente era già altrove. I miei sensi erano inesorabilmente rapiti da lui. Il pensiero di rivederlo non mi dava pace.
Ritornare a casa e confessare alla mia famiglia che ero diventato un “diverso” mi dilaniava e allo stesso tempo mi esaltava. Continuavo a chiedermi se diverso lo ero sempre stato o se lo ero diventato dopo aver incontrato lui.
Mio padre m’aveva sempre detto che studiare non mi sarebbe servito a nulla.
Ma lui era un vecchio campagnolo, una di quelle persone che è impensabile stare ad ascoltare. Ripeteva: “il cervello non serve a nulla, figliolo, le palle, sono le palle quelle che servono per sopravvivere a questo mondo!”
Possibile. Ma queste tanto rinomate “palle” non le aveva neanche lui. Aveva solo le braccia. Braccia per lavorare, per costruire una famiglia e un futuro.
Anche riguardo al futuro aveva idee sue, idee balorde da contadino, come la convinzione che a nulla serva lo studio, bensì solo il duro lavoro, così come la famiglia e i figli; convinzione che presto però m’aveva spinto tra le braccia del presunto amore della mia vita; quella ragazzina piccina, tanto bella, non fosse per quell’ustione violenta al viso…
Se lo avessi ascoltato forse sarebbe stato meglio.
Niente università, solo olio di gomito. Niente libri, niente professori… né quel professore. Né le sue labbra, né la sua voce.
Né sogni a turbare quelle notti che prima m’avevano sempre taciuto.
Ecco, a dirla tutta, la bocca ai sogni l’avevo tappata io perché parlavano troppo.
I bambini di solito hanno paura del mostro sotto il letto, io di notte temevo un uomo nel mio letto. Lo vedevo entrare sotto le lenzuola che mia madre aveva già da ore rimboccato e me le scompigliava tutte, voleva delle cose brutte da me, le stesse cose che una volta avevo visto fare a papà nel bagno. Quell’uomo credevo fosse l’uomo nero che la nonna mi diceva abitasse in cantina, ma se avessi raccontato che lo sognavo così spesso mi avrebbero dato del fifone. In ogni caso, pensandoci ora, aprire la bocca sarebbe stato sconveniente.
Solo con Flora lui stava zitto, credevo avesse paura del mio amore per lei oppure che non gradisse granché i suoi seni. I suoi seni così morbidi avrebbero spaventato chiunque, potevi solo tremare all’idea di toccarli.
Non voglio più tremare, adesso.

Ciò non toglie che fu difficile, dannatamente difficile, separarmi da lei, nonostante non potessi più chiamare “amore” quel dolce sentimento che, inesorabilmente, ci teneva allacciati.
Non ne sono sicuro, ma immagino si trattasse di quello strano senso di affetto che l'abitudine, dopo un po', inculca nella testa alle persone che un tempo sono state innamorate, e che hanno giurato all'amante di rimanerlo per tutta la vita.
Ancora ricordo quei grandi occhi verdi, luminosi di lacrime e tenerezza, speranza e sofferenza, quando, con coraggio -e probabilmente poco tatto-, le dissi che pensavo di essere omosessuale.
Parlavo, cercavo un appiglio, una scusa, un qualcosa, ma la voce mi si spezzò in gola all'udire quelle dolci e straziati parole provenire dalle sue labbra; quelle parole che, più ancora delle note d'amore pronunciate nei momenti dell'estasi suprema, per sempre porterò nella mia anima:
"Allora, non mi vuoi più bene?"
Ma come nell'anima porto quella sua domanda, ancora non dimentico i minuti che seguirono. Cosa dovevo risponderle? Dirle la verità le avrebbe spezzato il cuore, mentirle sarebbe stato un doppio peccato. La baciai un'ultima volta sulla guancia, e quel bacio aveva un sapore agrodolce, come un'arancia non ancora matura. Uscii dalla camera, senza dirle niente. Lei non provò a fermarmi: come fareste voi a fermare un fiume che rompe gli argini, la pioggia che picchia sui vetri delle finestre con un suono simile alle note acute di un pianoforte, un tornado che porta via con sé tutto ciò che incontra per strada? Io, in quel momento, certo non ero arrabbiato, e non ero carico di distruzione come quegli elementi, ma, come loro, sapevo bene qual era la mia strada. E dove essa mi portava: in stazione, per tornare là dove volevo essere; dalla persona con cui davvero volevo stare. E sapevo che, sceso dal treno, l'avrei trovato là ad aspettarmi.

“Ciao”.
Adoravo la sua voce. Era così calda, sensuale, forte come le braccia che subito mi strinsero. Mi ricordavano tanto quelle di mio padre, ma certo i muscoli di Evan mi attiravano molto di più.
“Pronto per partire?”
Annuii. Mi liberò dalla stretta e mi diede una pacca sulla spalla. Mi sussurrò all’orecchio delle parole, ma il fischio del treno le mangiò.
Salimmo in macchina. Quasi sprofondai nel sedile vecchio e consunto della Fiat Punto, ma mi piaceva quell’ambiente accogliente nel quale i nostri corpi potevano sfiorarsi senza che dessi libero sfogo ai miei desideri più intimi.
Non sapevo dove mi stesse portando, ma con lui sarei andato anche in capo al mondo.
“Siamo arrivati”, annunciò non appena vedemmo la costa che si stagliava all’orizzonte, subito dopo un tornante. Una spiaggia, questa volta di sabbia fine.
A quanto pare è destino che le mie storie abbiano sempre il mare come testimone.
Scendemmo dall'auto e lui mi sorrise incoraggiante, invitandomi a seguirlo: era così evidente l'ansia che stavo provando? Cercai di sorridere a mia volta, seguendolo sulla spiaggia, affondando le scarpe in quella soffice sabbia.
"Ti piace il mare?" chiese.
“Beh…” iniziai, scrollando leggermente le spalle " Sono cresciuto in campagna… e ci vado solo d'estate, con Flora..." Quasi mi morsi la lingua per aver nominato il suo nome.
“Sì, me la ricordo…Me l’hai presentata un po’ di tempo fa.”
Si voltò a guardarmi dritto negli occhi. “E come sta? Non eravate partiti insieme?”
Lo avevo informato del breve viaggio che avevamo intenzione di fare, ma ero stato molto vago… Poi, all'ultimo momento, gli avevo chiesto di venirmi a prendere in stazione.
“In effetti…ci siamo lasciati.” Evan assunse un’espressione di sorpresa.
“Oh…Mi spiace. Stai bene, vero?”
“Io…” lo interruppi. Questo sembrava il momento giusto per essere chiari con lui.
All'improvviso però venni sconvolto da un freddo brivido d’incertezza. Il vento e la salsedine sulle mie guance accennavano piccole carezze, io non pensavo a nulla, ero quasi assente. Lui mi guardava ed io sorridevo.
Non capivo più niente, a momenti non sapevo cosa dirgli, più la sua calda voce si avvicinava alle mie orecchie, più io mi sentivo diverso, mi sentivo me stesso. Decisi che era il momento di confessare tutto.
Da dove cominciare? Osservai attentamente la sua mano indugiare in una tasca della giacca marrone, e poi nell’altra, finché non trovò un pacchetto di fiammiferi e uno di Marlboro. Sorrisi al pensiero che probabilmente fosse l’unico fumatore al mondo a non possedere un accendino. Tirò fuori dal pacchetto bianco e rosso una sigaretta e l’accese. Inspirò.
“Lo sai che il tuo silenzio vale più di mille parole, vero Marco?” Domandò, dopo aver elegantemente soffiato fuori il fumo.
Percepii un brivido alla schiena sentendo come pronunciava il mio nome con quel suo velato accento straniero.
“Credevi che non l’avessi capito?”
Continuavo a starmene zitto, lì a pochi passi da lui. I miei occhi, fissi sul cerchietto appeso al suo lobo sinistro, si spostarono poi sulle labbra che sfioravano appena il filtro giallo della sigaretta. Ricordavo ancora le emozioni del primo giorno di corso, quando le risatine delle mie colleghe avevano sancito l’approvazione di quel giovane professore.
Infine si voltò e mi sorrise.
“Immagino tu voglia una risposta da me, a questo punto”
Mi poggiò una mano sulla spalla.
Fu lo stesso tocco che mi sorprendeva nei mesi prima, durante le ricerche a casa sua. Appoggiava la mano sulla mia spalla quand’ero colto dalla stanchezza e negli ultimi minuti prima di congedarci.
Aver accettato di svolgere una ricerca universitaria al suo fianco aveva aumentato la mole di studio, ma mi ero entusiasmato sin dal principio. Ricordo con dolcezza i pomeriggi di ricerche: trascorrere con lui quel tempo mi aveva permesso di scoprire un tesoro luccicante nel suo animo. La cultura, gli ideali e tutto il sapere che mi regalava gli conferivano fascino e giovinezza. Evan descriveva il mondo antico come se l’avesse vissuto, come se fosse stato il confidente delle grandi personalità del tempo. Non mi arrestavo mai dal porgli domande, anche indiscrete come… come l’amore greco. Indiscrete, ma a suo parere perspicaci. Anche lui si era affezionato a me, lo sospettavo.
Ora bramavo solo di sfiorare la sua mano con la mia.
Gettò il mozzicone di sigaretta nella sabbia, affondandolo con il piede. Io lo guardai negli occhi, quegli occhi neri come il cielo notturno in cui vedevo le fiamme ogni volta che mi rivolgeva uno sguardo. Sentii nel mio cuore uno strano tepore: non sapevo esattamente cosa fosse, forse amore, oppure semplice ammirazione. No, certo che no! Era molto di più.
Avvicinò una mano alla mia guancia e cominciò ad accarezzarmi con il pollice. Mi si accostò, chiudendo gli occhi. Li chiusi anch'io. Era a pochi centimetri dalle mie labbra, i nostri respiri erano uno solo, le sue labbra calde toccarono le mie delicatamente.
Il nostro fu un bacio semplice e casto, le nostre labbra si toccarono appena.
Baciando Flora, le prime volte, avevo sempre avuto la mente sgombra. Nessun pensiero a punzecchiarmi, solo una grande sensazione di morbidezza.
Ora, con la bocca gentile di Evan premuta contro la mia, non riuscivo a creare il vuoto nella mia testa. Mille ricordi -sì, di Flora- mi invadevano il cervello, impedendomi di godere appieno di quel contatto che avevo tanto desiderato. Quando il professore si allontanò da me, ebbi l’impressione di avere immaginato tutto.
Lo fissai un attimo, disorientato. Non mi sarei mai aspettato che agisse in quel modo, non avrei mai sospettato che lui, che davvero lui…
Ma non avevo sognato tutto, non era possibile: sentivo sulle labbra la freschezza del suo bacio che s’amalgamava alla brezza salmastra, e sul viso ancora il ruvido contatto della sua pelle.
Mi portai una mano alla bocca, senza parlare. Evan rise.
“Io… io non credevo che…”
“Marco, ascoltami.” Mi interruppe lui “Ci sono delle cose che dovrei spiegarti…”
Forse fu da quel particolare che mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, oppure dalla risata, troppo lunga e troppo soddisfatta.
O forse fu dal modo in cui mi guardava, come se fossi un acquisto raro che si era appena accaparrato.
“Sì… decisamente” balbettai “Insomma, lei…come ha capito che…”
“Capire è il mio mestiere, ma la parte che adoro davvero è mettere a frutto quello che capisco.”
Si inumidì le labbra, le stesse che fino ad un attimo prima erano premute sulle mie. Un attimo o un secolo?
“Stai tranquillo, nessuno lo saprà mai, se accetti di collaborare ad un esperimento.”
Una strana sensazione investì le mie vie respiratorie- come se tutta l’acqua che si infrangeva ritmicamente sulla spiaggia si fosse incanalata all’improvviso nella mia trachea.
“Non credo di capire.”
“E io che ti credevo uno dei più svegli del corso.”Fui colto da uno stordimento improvviso, come se il mondo avesse preso a girare vorticosamente. “Non sei né il primo a essere incappato nella trappola né tantomeno il più carino” Mi afferrò il mento con tono canzonatorio “Ma si può contrattare. Ti ho accennato ad un esperimento, no?”
Sorrise, quasi ridendo tra sé.
"Ti sei mai fermato a riflettere su cosa siano i sentimenti? Beh, lascia stare l'anima, il cuore e tutte quelle cose là. Quello che noi chiamiamo sentimento altro non è che un insieme di impulsi nervosi e ormoni. Ora, con tutte le forme di energia che l'uomo sfrutta, perché dovrebbe ignorare proprio questa? " mentre parlava allungò una mano per accarezzarmi di nuovo. Mi scostai, ora inorridito dalla sua vicinanza.
"Aspetta, lasciami finire. Diciamo che questo esperimento si basa su uno scambio di favori... e di piaceri. Tu desideri la mia persona e io credo che cose di questo genere accadano continuamente nel mondo. Io faccio questo favore a te e in cambio ne ricevo un altro. Si crea così una specie di rete destinata ad espandersi... Potenzialmente potrebbe coinvolgere tutto il mondo!"
"Lei vuole solo sfruttare i sentimenti per rendere schiavi gli altri! Io... io..."
"Mi consideri un mostro, vero? Dammi almeno il tempo di illustrarti quel che ti chiedo".
Un turbinio di emozioni, sensazioni e immagini mi investì la mente e il corpo: ero tentato di girarmi e fuggire da quel sogno distorto, correre lontano, prendere il treno e tornare in città.
Sarebbe però stato un inferno rivedere gli occhi di Flora per non parlare della reazione che avrebbe avuto mio padre: “Ecco, il mio unico figlio un frocio doveva essere! Ah, ma lo sapevo io che tu dovevi rimanere qui, nella tua campagna! E invece no, dovevi studiare, dovevi andare all’università per prendere un pezzo di carta e diventare ricchione! Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Razza di…” Ed è meglio fermarsi. Inoltre non sarebbe stato tanto più facile sopportare i visi stupiti degli amici e le risatine maliziose della gente in facoltà.
In pochi secondi l’unica domanda che restava nella mia mente era una sola.
E la risposta sembrava scritta in quegli occhi ormai diventati quasi insopportabili.
“Cosa vuoi da me?”
"Semplice. Marco, io ho bisogno di te e tu ne hai di me. Cosa c’è di male nell’aiutarci a vicenda?”
“Sia chiaro.” Il mio tono si fece più freddo e, davanti a me, l’Evan dei miei sogni tanto taciuti, dei sentimenti soffocati così a lungo, delle notti passate a tormentarmi per quell’amore sbagliato, si sgretolava ad ogni parola. Mi sembrava di stare di fronte a un estraneo adesso: fino a pochi minuti prima, invece, Evan era la persona che credevo di conoscere più a fondo; ma l’avevo immaginato diverso da quello che era.
“Ti chiedo solo di venire da me qualche volta a settimana e di lasciare che io misuri alcuni livelli del tuo organismo in particolari situazioni. Si tratta di piccole ventose che collegherò in alcuni punti del tuo corpo e poi un prelievo del sangue. E in cambio mi avrai, completamente tuo, Marco.”
Completamente tuo. Rabbrividii.
“Cosa vuoi?” ripetei, ma in silenzio e a me stesso, questa volta. Cosa volevo realmente?
Mentre quella domanda rimbombava inutilmente nel mio cranio, aprii la bocca e trovai una voce troppo arida per pronunciare alcunchè. Succede, quando vedi le tue aspettative polverizzarsi. Diventano polvere anche le corde vocali.
"Quali situazioni?"
Completamente tuo. Completamente tuo, Marco...
La sua risata danzò sinistra nell'ombra di una giornata che si scuriva sempre più in fretta. Quando mi rispose, avvertii nella sua frase tutta la malizia che m'ero abituato a riconoscere, in facoltà, anche nei concetti che si direbbero meno ricchi d'interpretazioni, più insospettabili. Ma era macchiata, da quel che d'incapibile che aveva l'uomo davanti a me, una marionetta, la brutta copia dell'Evan che avevo imparato ad apprezzare.
"Non riesci proprio a immaginarle?" mi canzonò, un sorriso demoniaco sulla piega delle labbra... Le sue labbra... Promesse mute, ben poco caste.
Mi guardò, prima di allontanarsi - "Sai dove trovarmi" - i suoi occhi neri erano più imperscrutabili del mare.
Restai lì. Ancora una volta, alla deriva. Un relitto...
Cosa vuoi?

Allora capii, o meglio, ammisi a me stesso ciò che avevo sempre voluto.
Fissai il mare, perfino le onde sapevano la mia risposta.
Evan si era allontanato, quando si girò, anche a quella distanza vidi un lampo di consapevolezza sul suo volto.
Risi, sciogliendo la tensione nervosa che avevo accumulato, sentendo l'odore di salsedine scendermi in gola, fino ad invadermi i polmoni. La risposta era così, dolce e dolorosa, invadente come il vento che agitava le onde.
E se me ne fossi pentito? Ero pronto ad accettare tutto ciò che quel "sì" comportava?
Erano state le risposte a queste domande a fermarmi. Avevo paura di affidarmi totalmente a lui, di rimanerne ferito, come tutti i soliti innamorati. Strano, con Flora non avevo mai avuto tutta quest'incertezza, forse ero convinto che per lei fosse impossibile ferirmi, nella sua estrema e romantica delicatezza.
Dovevo fidarmi, o sarei rimasto nella prigione grigia dell'indecisione per troppo tempo.
In fondo, la soluzione non poteva essere più semplice.
Così feci quello che ero in grado di fare meglio: improvvisare. Sapevo così bene dove andare. Preso da un fervore febbricitante abbandonai la spiaggia e le sue onde leggere. Corsi giù per la strada a perdifiato. Non avevo la macchina ma ero ancora in tempo per il treno, l'ultimo di quella giornata. Arrivai senza nemmeno accorgermene, uscì dalla stazione e fui immediatamente travolto dall'odore penetrante della città. Le ombre della notte iniziavano a sciogliersi sull'asfalto e le luci al neon dei locali si accendevano ronzando. Mi infilai in un vicolo che conoscevo fin troppo bene e bussai alla prima porta a sinistra.
C'era odore di urina, odore di urina e di pesce fritto in quel vicolo e quello strano sapore di bagnato che di notte entra nei vestiti e si attacca alla pelle.
Forse sarei dovuto scappare, forse mi sarei dovuto davvero girare e andarmene, ma i pensieri sembravano crollare come un castello di carte e avevo il fiatone pur avendo le gambe inchidodate all'asfalto. E mentre tentavo di controllare i conati di vomito che iniziavano a salire come l'alta marea, la porta si aprì.
Il suo orecchino brillò alla luce sinistra della notte ed il suo sorriso mi pugnalò in pieno petto. La grande nausea.
Dentro era tutto veramente buio e confuso, ora sentivo il corpo di Evan che premeva il mio contro la semplice parete.
In quel momento tutti gli incubi, le paure, le incertezze, i sogni erano rinchiusi lì nel buio profumato di quella stanza. Era impossibile fare altro, pensai, e pur avendo mille domande senza alcuna risposta non mi fermai, non perché credevo che fosse la cosa più giusta da fare ma perché sapevo che in fondo era un po’ quello che volevo.
Quante cose mi venivano in mente, anzi no, mi vennero in mente solo dopo, quando mi resi conto che avevo fatto quello che avevo fatto e che, per qualche nascosta ragione, ero convinto che l’esperimento non aveva avuto luogo.
Alla vista di Evan che giaceva tranquillo accanto a me fui travolto dal panico: cosa nascondeva quella notte? E quel gesto senza più alcun senso?
Chiusi la porta e scappai da ogni cosa: dal dolore di Flora, dalla gioia di vedere Evan, dal terrore dell’esperimento, dalla stanza buia, dalla mia diversità, da quella folle notte.
Scappai perché nulla aveva senso, nemmeno quella fuga rocambolesca.
Ho visto i più alti spiriti della mia generazione sgusciare via da strutture universitarie in acciaio vetro cemento per attraversare come meteore liquide il firmamento delle glorie tramontate del lavoro coatto e dell’alienazione cartacea e deforme, poi cadere rovinare seppellirsi fino alle spalle sotto litri e litri di vergogna infangata da capoufficio traballanti, contratti senza margine e senza valore, tirocini deformativi in locali tappezzati dei manifesti della rivoluzione studentesca, senza mai urlare né guardare, scorticare o piangere le formazioni accademiche sfumate via nel passato rapace che tutto ingurgita e nulla tace; addio fiordaliso, addio, non c’è niente di più conturbante delle profondità del tuo sguardo color della notte, niente di più lancinante delle altre cose che ho strappato e mai avrò di te, e rimarrò seduto sotto le fierissime mura del palazzo del tuo cuore, con gli occhi ciechi bruciati a implorare il folle guardiano.
Resterò, fino alla fine di sempre, zoppo dell’amore lusinghiero e infido e nero.
Addio.

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MessaggioTitolo: Re: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyLun Mar 25, 2013 2:56 pm

Ed ecco a voi i finali proposti! La commissione comunicherà il finale finale (ehehheheheh) nei prossimi giorni Wink

Anicas Martina - Amanda


“Non farlo” disse una voce alle mie spalle, una voce fioca e carica di tristezza, ma al mio orecchio tanto soave.
Mi girai e la vidi: i suoi lunghi capelli mori erano mossi dal vento, il suo piccolo viso era rigato dalle lacrime, mentre i suoi occhi blu cobalto erano velati dalle lacrime.
“Non farlo, Marco” ripeté.
Guardai dinnanzi a me, un abisso completamente nero era lì, pronto ad inghiottirmi, se solo avessi voluto.
Ed era quello che volevo, volevo mettere fine a quella storia assurda, e sarebbe stato il testimone di tutte le mie storie a farlo. Le onde si infrangevano rabbiose sulla spiaggia, le mie caviglie erano già immerse, mentre il mio viso era bagnato dalle goccioline salmastre che provenivano dalle onde che si infrangevano sul mio corpo.
Ero pronto a proseguire, ma una domanda riecheggiava nella mia mente: come aveva fatto a trovarmi?
Una esile e fredda mano afferrò il mio braccio: “Ti prego, torna con me, tu non sei come credi.”
“Ti sbagli, Flora. Io sono esattamente come sono.”
Lei spalancò gli occhi e, piangendo, emise un singhiozzo. “Non è vero, Marco, ti prego, torna indietro”
Deglutii cercando di ignorare il nodo che mi si era formato in gola: “Non posso. Quello che ho fatto non potrà mai essere cancellato. Ma soprattutto, quello che sono non potrà mai essere cambiato”
Lei scosse il capo e mi strinse. Poggiò la testa sulle mie scapole e mise le mani sul mio ventre.
“Il tuo vero io è quello di prima di conoscere Evan, è stato il suo esperimento a cambiarti”
Aggrottai la fronte, il suo esperimento? Cosa ne poteva sapere lei dell’esperimento di Evan? In fondo anche io non ne sapevo nulla.
“Cosa intendi dire?” le chiesi girandomi e stringendole il polso.
Lei non rispose, si limitò a guardarmi con il viso carico di disperazione. Strinsi ancora più forte: “Allora, cosa vuoi dire?” urlai.
Lei emise un gemito a causa del dolore, e io mollai subito la presa.
“Scusami, Flora_ sospirai_ ti prego rispondimi.”
“Controllo della mente” disse lei. Inarcai le sopracciglia, cosa voleva dire?
“Cosa vuoi dire?” le chiesi.
“E’ questo l’esperimento che Evan ha compiuto su di te”
“Come?”
“Tutti noi possediamo qualcosa di paranormale, tutti noi utilizziamo solo piccoli frammenti del nostro cervello, e quelli che utilizziamo sono effimeri e facili da manipolare, quel professore stava sperimentando proprio quello, come manipolare la mente, e tu sei stato la sua cavia”
Aveva utilizzato lo stesso termine che aveva utilizzato Evan. “L’ho scoperto rovistando tra le sue cose, ecco la prova” mi disse porgendomi un diario. Lo aprii e riconobbi la scrittura di quell’uomo. Tutto ciò che Flora mi aveva detto, era scritto in quelle pagine.
“Vuoi dire che io non sono...” dissi titubante.
“Esattamente” disse lei con voce ferma e sicura.
Sorrisi felice e la strinsi “Grazie Flora, grazie.”
Le presi il volto tra le mani e le baciai la fronte. Lei mi sorrise e mi prese la mano “Andiamo a casa adesso.” Annuii.
Lei mi aveva salvato, lei mi avrebbe guarito, lei era il mio unico e vero amore.


Antonello Roberta Maria - rma.roby)

Addio.
Addio.
Addio.
Quattro.
Pesanti come un colpo.
Un colpo: a terra. Mi trovavo a terra. Non avevo percepito la perdita graduale dei sensi, lo stordimento. Non mi ero accorto che stavo cadendo.
Mi sentivo piccolo, incapace di rialzarmi. Il mio corpo non rispondeva ai comandi del cervello.
"Scusi, si sente bene? Ce la fa a rialzarsi?"
"Sì... grazie, ce la faccio."
Mi rialzai, ignorando la signora che continuava a chiedermi se mi sentissi bene. Ricominciai a correre e solo il dolore riuscì a porre fine alla mia fuga.
Appoggiai la mano sul muro di una casa e abbandonai la testa sull'intonaco che si stava sgretolando.
Ma uno
come me
dove potrà ficcarsi?
Nausea. Fuga. Evan. Vicolo. Esperimento. Bacio. Spiaggia. Flora. Spiaggia bacio esperimento vicolo Evan fuga. Nausea.
Sull'orda sfrenata dei miei desideri
non basta l'oro di tutte le Californie.
Vicolo blu bianco nero scurissimo infido celato ipocrita enorme minuscolo.
In quale notte
delirante
malaticcia
Claustrofobia: paura degli spazi chiusi. Il vicolo si chiudeva, si attorcigliava, si ripiegava e si avvolgeva su me. Aria, aria. Un appiglio!
Il vicolo era ormai diventato la cella in cui mi trovavo murato vivo.
Vivo, vivo, io ero vivo!
I mattoni si staccavano dalle pareti e mi precipitavano addosso. Un appiglio! Flora... Evan.
Evan.
Passerò,
trascinando il mio enorme amore.
Evan.
I mattoni non precipitavano più. Ancora riparandomi la testa con le mani, voltai lo sguardo verso l'inizio del vicolo.
Tutto era tornato alla normalità. Avevo trovato l'unico che poteva impedire al mondo di crollarmi addosso.

Mi incamminai nell'oscurità della notte, lì dove avevo visto spegnersi una sigaretta e brillare un orecchino.


Calabrese Liliana - LilianCa95


I giorni che seguirono quella notte folle furono pieni di dubbi, ripensamenti, incertezze, mi ero donato completamente a quell’uomo, avevo donato a lui la mia intimità e per lui avevo rinunciato al presunto amore della mia vita ma ora mi chiedevo se tutto ciò aveva un senso o se mi ero spinto in un oceano sconfinato di perplessità che mai mi avrebbero condotto ad un approdo sicuro, per lui si trattava solo di un esperimento. Per me era amore.
Decisi ben presto di lasciar perdere tutto, se avevo imparato qualcosa dai pressanti consigli di mio padre era che mai mi sarei dovuto sottomettere a qualcosa, che insomma avrei sempre dovuto custodire con gelosia la mia dignità, proprio come un pastore guarda con rovello il proprio bestiame e i propri campi. Dovetti trasferirmi, era ovvio, non avrei mai potuto guardare quei così belli occhi neri e profondi come la notte ma che come un fulmine in piena estate mi avevano trafitto l’anima. Decisi così di tornare a casa dei miei, quando ci si sente soli e sperduti quale altro luogo meglio delle candide mura domestiche potrebbero accoglierti. Mio padre mi vide, sorrise, mi strinse, ma non ebbi il coraggio però di raccontargli nulla. Seguirono mesi di silenzio e digiuni. Più volte avevo riportato la mente a quella famosa notte, ma subito avevo preferito allontanarmi dal pensiero di quel singolo attimo in cui i nostri corpi erano stati una cosa sola, quasi me ne vergognassi.
Dopo circa un anno decisi di tornare all’università, la realtà che trovai fu del tutto diversa da quella che mi aspettavo, quel professore che tanto mi aveva ferito non c’era più, e i miei compagni di facoltà non mi guardarono come un diverso, non mi isolarono, nulla era cambiato, nonostante i dodici mesi che mi separavano dall’ultima volta in cui avevo varcato la soglia di quella porta: eppure tutti conoscevano la mia storia!
Da quel momento trovai anche la forza di confessare tutto a mio padre, non urlò come al solito, nessuna espressione di delusione, nulla, si limitò ad abbracciarmi forte e in quell’abbraccio trovai tutta la comprensione di cui avevo bisogno.
Le settimane che seguirono trascorsero rapide e leggere, ben presto conobbi Luigi, un ragazzo fantastico dagli occhi chiari e dalla candida pelle olivastra. Anche lui era diverso, proprio come me e nella nostra diversità eppure ci trovammo, felici di condividerla insieme di vivere pienamente e senza timore il nostro amore. Con lui era tutto diverso, Flora era stata una ragazza fantastica e una compagna fedele, ma in lei non avevo trovato quella complicità che invece ora vi era nei gesti e negli sguardi che ci scambiavamo io e Luigi.
Una volta al luna Park era capitato che mentre ci tenevamo per mano avevamo incrociato il sorriso gentile di una vecchietta, era evidente ormai i tempi erano cambiati e nonostante i fanatici il nostro amore non doveva temere nulla.
Avevo finalmente trovato al termine di questo mio viaggio in un oceano a volte burrascoso, a volte meno, quella serenità e quell’armonia che ero deciso ora più che mai a non abbandonare più.
Essere diversi da quella così monotona ‘’normalità’’ non è motivo di vergogna, l’amore resta comunque un sentimento nobile, troppo grande per essere nascosto dietro la finzione di una relazione e di una vita che non ci appartiene, o quasi non sentiamo nostra.
La vita aveva riservato per me un enorme lezione, che ero pronto ora a custodire per sempre.


Ilaria Rachele Castellano - KAISERINE

Camminando nel buio di quella notte senza fine, smarrito nei miei pensieri, mi resi conto che l'unica cosa che mi rimaneva da fare era separarmi da tutto e da tutti. Volevo capire cosa significava quella lotta interiore che iniziava ad attanagliarmi e per fare ciò, dovevo ricomporre la mia vita. Cambiare città, mettere chilometri e chilometri tra il passato e me poteva essere il primo pezzo di un complicato puzzle: la mia vita. Ciò mi avrebbe sicuramente aiutato a capire chi fossi e quali fossero i miei sentimenti e le mie priorità. Volevo dimenticare le parole di quello zotico di mio padre, il dolce viso di Flora rigato dalle lacrime e le offerte sperimentali di Evan; volevo scoprire se il mio sentirmi omosessuale non fosse altro che la scusa per allontanarmi dalle mie radici o il bisogno di provare emozioni nuove. Non capendo, però, che questo mi avrebbe condotto ad una confusione totale, a mettere in discussione la vita che avevo vissuto fino ad allora. Vagando senza meta, mi ritrovai su quella spiaggia dove avevo provato mille sensazioni diverse; tutt'intorno regnava silenzio interrotto unicamente dalle onde che terminavano spumeggianti sulla riva e dal vento che delicatamente lambiva il mio volto. Il cielo e il mare era un tutt'uno, sembravano fondersi come a formare un solo corpo. E da quest'immagine di fusione tra cielo e mare capii che da quel momento in poi il mio obbiettivo da raggiungere sarebbe stato dimostrare a tutti che l'amore non ha binari prestabiliti. Fuggire da un mondo che non comprende la propria sensibilità mi avrebbe fatto ritrovare la mia libertà, la voglia di avere sentimenti veri, di amare senza convenzioni e senza perché. Non voglio più sognare ad occhi aperti, voglio circondarmi di persone che mi amano per quello che sono realmente: ora per me inizia una nuova vita!!!

De Bellis Simona - Simona 2.0

Fu questa l’ultima parola che pronunciai prima di compiere, tra le lacrime, un gesto che tutt’ora non mi perdono.
Tornai controvoglia in quello stesso vicolo, determinato a risolvere il problema per la prima volta in vita mia.
Era stato lui a chiamarmi, lui mi aveva dato ancora una volta l’occasione per fare ciò che mai avrei pensato di fare.
Ad un semplice tocco della mano la porta si aprì, svelando nella penombra la figura di Evan, seduto a gambe incrociate sulla poltrona al centro della stanza.
“Ti stavo aspettando” disse, mentre un ghigno si disegnava lentamente sul suo volto.
Rimasi sulla soglia, incredulo di aver avuto il coraggio di presentarmi nuovamente lì, a casa sua, dopo ciò che era successo.
Portò il whisky alla bocca lentamente, senza smettere di osservarmi accigliato. I cubetti di ghiaccio tintinnavano scontrandosi ad ogni sorso.
“Accomodati” sussurrò indicando il divano accanto a lui.
Finalmente mi mossi. Mi sentivo una marionetta che obbedisce ad ogni comando del padrone, in sua balìa.
Accese una sigaretta. Mi accorsi che eravamo al buio osservando il rosso del tabacco che bruciava.
“Perché mi hai chiesto di venire?”
“Scommetto che saresti venuto lo stesso, non è vero? Di cosa vuoi parlarmi?”
Mi capiva al volo. Con lui mi sentivo sempre con le spalle al muro. Forse l’unico modo per uscire da quella situazione era fare qualcosa di cui entrambi ci saremmo stupiti.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“Un thé”
Lo seguii in cucina. L’idea mi venne all’improvviso. Un rumore sordo ruppe il silenzio della casa, presi con cautela l’oggetto caduto e lo rigirai tra le mani, contemplandolo.
“Allora, mi aiuterai con l’esperimento? So che vorresti ripetere l’esperienza dell’altra volta, non mentire a te stesso… ti chiedo solo di poter applicare delle ventose sul tuo corpo. L’esito dell’ultimo esperimento ha dato dei frutti, ma mi serve un’ulteriore verifica per poter procedere. Poi… beh, vedremo. Potresti non servirmi più, ma se proprio non puoi fare a meno di me, ti concederò di diventare mio assistente”.
Scoppiò in una fragorosa risata, sicuro di avere il controllo della situazione.
Ma ero io ad avere il coltello dalla parte del manico… letteralmente.
I miei passi rimbombavano incerti sulle mattonelle, la sua schiena era sempre più vicina, sentivo il suo odore, ero a pochi centrimetri da lui… un colpo netto, senza esitazione, un altro colpo, ancora, e ancora… Mi fermai solo quando il suo corpo si accasciò al suolo con un solo gemito, rovesciando il pentolino al quale si era aggrappato. Il suo braccio divenne rosso, ma ormai poco importava.
Portai il coltello con me: un trofeo, la prova che da allora in poi avrei potuto tutto.

Come quella sera, anche ora rigiro la lama tra le mie mani. Come quella sera voglio dimostrare che posso tutto, anche all’interno di queste tre mura, dietro la grata. Come quella sera voglio fare una pazzia. Come quella sera sono pronto a trafiggere un corpo da parte a parte, questa volta per capire cosa ha provato Evan.
Addio.

Degni Antonella - Joy10



Quella parola risuonava amara nella mia testa, l’aria e la spiaggia ne erano pervase. Ero tornato dove tutto era iniziato e dove avrei districato il caos infinito nella mia anima. Il mare e la sabbia, per me, erano uno dei pochi posti dove non sei più nel giusto o nell’errore, dove non esiste più l’angoscia o il dolore, nemmeno la felicità. In quei momenti in cui il tempo sembra smettere di correre, io mi rifugiavo lì, sulla soglia del silenzio, proiettato in una pace illusoria. Nulla aveva senso, ma pensarci rendeva tutto meno doloroso. Dovevo andare via. Il desiderio di fuggire mi aveva fatto prigioniero, non sarei mai più riuscito a liberarmi dalla sua morsa dolorosa.
Evan per me era stato un’abile commerciante. Ero andato da lui, fidandomi ciecamente, ma al posto di due fiale d’amore, pagate con gioia e angoscia, mi aveva rifilato una fiala diversa, contente dolore.
Era avvenuto come con le immagini formate dal fumo colorato: pochi meravigliosi attimi, e poi più nulla.
Stavo mettendo un bavaglio ai miei sogni, aggrappandomi a schemi prefissati e indistruttibili, per non annegare in quel mare d’incertezza.
Quando avevo avvertito la necessità urgente di fuggire, non avrei mai pensato di trovarne la causa. Ma, pensando razionalmente all’avvenire, la trovai. Quello a cui stavo andando incontro con fierezza, quando aprii quella porta che celava Evan, dopo quella notte mi spaventava. Non potevo più sopportarlo.
Molti penseranno che fosse codardo, ma preferivo fuggire dalla spirale demoniaca che, se fossi rimasto, si sarebbe stretta attorno a me. La sentivo anche lì, avvicinarsi piano e acquattarsi nell’angolo più profondo di tutti i miei conoscenti: la cattiveria. Le persone giudicano, guardano. Io sarei rimasto ferito da ogni sguardo, un marchio indelebile sulla pelle.
Poi un urlo mi riportò alla realtà, trascinandomi via da quel silenzio buio, per riportarmi nella luce.
Era Evan, correva verso di me, in lacrime, gridando il mio nome come se il suo fosse il cuore più spezzato del mondo.
«Se vorrai, sai dove trovarmi» disse, lasciandomi una lettera.
Mentre andava via, una lacrima si staccò dal suo viso, rotolò nell’aria e nel vento, fino a spegnersi sulla sabbia, lasciando un alone, un marchio su di essa.
M'interessai alla lacrima, simbolo evidente che le mie convinzioni su Evan erano crollate. Aprii la lettera, erano delle analisi di ormoni nel sangue, ce n’erano due messe a confronto, così uguali che sarebbero potute appartenere alla stessa persona. Evan aveva scritto poche righe.
“Questo è per farti capire. Siamo uguali a loro. Nessuna differenza biologica, nessun impulso anomalo. Ricordati che tu non sei diverso. Voglio aiutarti a portare questo peso”
Avevo sbagliato, non era stato Evan a vendermi dolore, ma la mentalità e il destino che mi attendevano nella vita.
In fondo, se avevo sofferto in quel modo, se ero stato sollevato del peso della mia anima dalle sue parole, se lui aveva rappresentato per me un’ancora di salvezza, cosa poteva essere, se non amore?

Improta Carmen - Hope_C

Mentre scrivevo queste ultime parole ero intento a guardare i paesaggi che scorrevano troppo velocemente davanti ai miei occhi per la corsa, quasi furtiva, nel bel mezzo di quel chiarore appannato dall’alba del nuovo giorno ,di quella locomotiva che avevo preso senza sapere neppure dove si stesse dirigendo. Avevo bisogno d’andar via. Dovevo sbaragliare le frontiere di quello schifosissimo posto in cui Evan m’aveva portato ,sperando che accettassi di partecipare al suo esperimento. Dovevo andare via da quella schifo di cittadina in cui ero vissuto ,fatto di case sbreccate e strade polverose con l’asfalto mangiato dagli anni ,ma che soprattutto era stato testimone del mio amore per Flora. Mi ritornò improvvisamente in mente e il suo nome provocò un frastuono nel mio capo molto peggio di quello della banda di musica per la processione del santo patrono giù in paese. Ero stato un totale e profondo egoista. Non potevo sicuramente tornare in paese ,le avrei fatto troppo male e non lo meritava assolutamente e più di tutto le parole di mio padre e la sua vergogna nell’avere un figlio ‘frocio’’ m’avrebbero ucciso ,definitivamente. Il paesaggio scorreva come una serie di fotogrammi sistemati tutti per tonalità e colore e poi le fermate e poi di nuovo rewind e di nuovo stop ad ogni fermata. Non so esattamente quante ore fossero passate da quando avevo preso il treno ma so che all’improvviso questo si fermò; era arrivato a destinazione. Ironia del destino, ma ero esattamente in un piccolo paesino a pochi chilometri da casa . Decisi di sostare lì per qualche giorno, poi avrei deciso che fare. Notti insonni e lacrime, lacrime amare a base di tristezza ,dolore e rabbia. Erano passati dieci giorni, giorni in cui nessuno avesse più mie notizie. Di lì a pochi giorni sarebbero cominciate le lezioni, avevo deciso, sarei tornato ai corsi. Fanculo Evan e le maldicenze ei pettegolezzi. “Senza essere e rimanere sé stessi, non c’è amore.”. Ero pronto ad affrontare qualsiasi conseguenza il mio essere “diverso”. Tornai di lunedì a casa e non ebbi una bella sorpresa. Mio padre era in ospedale da circa una settimana e l’unica ad esserle accanto era Flora, nonostante tutto quello che le avessi fatta. Incontrai Evan alla stazione, credevo fosse un incubo ,credevo mi perseguitasse e invece mi sbagliavo, era lì per Luca, un altro ragazzo del corso che a parte me gli dava considerazione. Dovevo capire, c’erano troppe cose che non tornavano. Perché l’interesse per i ragazzi sebbene lui non fosse, beh, insomma, gay ?! Il perché lo scoprii più velocemente di quello che pensavo. Mio padre era in una clinica psichiatra ,la stessa dove anni prima era stato Ricoverato Evan all’età di soli 18 anni. Soffriva del disturbo ossessivo compulsivo generalmente caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni, anche se, in alcuni casi, si possono presentare ossessioni senza compulsioni e viceversa. Era il caso di Evan ,era ossessionato dal sapere ,che poi entro certi limiti può essere bello ,ma la sua era una malattia. Feci qualche ricerca in internet, si poteva arrivare ad uccidere. Non appena arrivai alla camera della costosissima clinica privata ,motivo per cui neppure l’università era a conoscenza del grave problema del professore, vidi papà, stanco ed affannato che a stento mi riconobbe e accanto c’era Flora. Era diversa, bella, splendente. Non me l’aspettavo ,pensavo stesse peggio ,ma soprattutto non m’aspettavo quel rigonfiamento ormai evidente al ventre. Era incinta di quattro mesi, di nostro figlio. Mi ci volle del tempo per capire, ma ce la feci e Flora m’aiutò. Ero talmente sotto il controllo di Evan di scordarmi di me stesso e delle persone che mi volevano bene. Rischiavo di non amarmi più. “Alcune persone devono toccare il fondo prima di essere disposte a imparare a salvarsi ed io ce l’avevo fatta, ero sfuggito dall’amore malato di Evan e avevo capito che Flora, non avevo mai smesso d’amarla”

Leone Mietta - Mietta

Ogni attimo era un battito che mancava al mio cuore stanco e avvelenato da una passione bacata. Trascorsero attimi e il mio pensiero mutò. Mi accorsi dell’inezia che stavo per commettere. Quella notte, per la prima volta dopo anni , mi sentii vivo e quelle emozioni furono cosi travolgenti che mi riportarono a percorrere quella strada , cercare quel portone, salire quelle scale ,aprire quella porta e rifugiarmi lì ,ancora e ancora , in quel letto, sotto quelle lenzuola e sentire, notte dopo notte , il palpito di quel cuore, il boccheggiare di quell’uomo. L’unione dei nostri corpi, la mancanza di senso e la voglia di addio accrebbero in me quel sentimento comunemente apostrofato ”amore. Le quattro mura racchiudevano una porzione di spazio nella quale io avevo trovato il mio posto nel mondo. Avevo soffocato fin troppo i miei desideri. Dov’ era finito il ragazzo che si imbatteva contro uno dei suoi due creatori per i propri sogni? Quella sera, io non ero scappato da Evan ma dalla mia natura. Il mio mondo stava cambiando e dovevo solo accettarmi .Le mie pulsioni emotive erano appagate ma vivevo in uno stato d’ansia. Tremavo solo all’idea che qualcuno si accorgesse che io fossi un “diverso”. Giunse quella fatidica sera e con voce schietta Evan mi disse:<< Fiordaliso mio, se ti va i nostri incontri si concludono qui.>> Se ti va ,se ti va E no! No che non mi va! Poi perché mi ha chiamato così? Come fa a dar voce ai miei pensieri. << Come preferisci>>.Fuggii ancora una volta celermente e mi diressi verso la stazione per tornare a casa. Le rotaie stridevano e il suono metallico nascondeva i miei pensieri. Ogni attimo che rubavo al tempo era una goccia di sangue che si congelava nell’anima. Il treno si avvicinava e io rimanevo immobile, ad attendere un verdetto violento.
Un lampadario bianco è al centro della stanza .Il soffitto verde. Un raggio di sole diritto ai miei occhi mi impedisce di identificare il volto dell’uomo, appoggiato su una sedia ,che mi chiede un accendino. Era proprio lui, il fumatore senza accendino. << E’ nella borsa. Ho fatto un sogno strano>>

Marabitti Alessandro - Alessandro...

Un esecrabile addio, un’incerta lontananza, un irraggiungibile desiderio, una vita da cambiare, il tempo scorreva inesorabile, non s’arrestava, ed io confuso rimanevo lontano dal pensiero e da qualsiasi ragione. Come dal porticciolo il trabaccolo s’increspa tra le onde, tra le onde in un frangente mi avvicinai alla morte, e con impeto e senza vergogna, mi illudevo di essere stato me stesso e di aver dato ogni singolo pezzo del mio amore in cambio di un’ambigua emozione eterna.
Presi il primo taxi che passò, disorientato, intoccabile, vuoto, con voce bassa e fredda dissi all’autista di portarmi dove tutto ha inizio e dove l’uomo scompare. E i vetri appannati dal mio respiro in quella macchina, opachi come le mie idee ormai lontane, riflettevano delle emozioni, che come vetri e frantumi, come grazie e spine, come il sangue e la passione, indissolubilmente scompaiono come quando c’è tutto e niente e quando si fa parte l’orgoglio per fare posto al sentimento che proviene dal profondo del cuore. E come il barbagliare, i miei occhi di lacrime.
Mi ero quasi addormentato, quando il taxi si fermò e da lontano vidi un faraglione, sotto misterioso si apriva il mare di notte, e forse nel profondo la speranza di un’altra possibilità. Prima di partire avevo inviato un messaggio alla mia amica Laura, l’unica a conoscenza della mia verità, l’unica che sapeva che il mio sentimento sarebbe affogato con il mio destino.
M’incamminai verso la scogliera.
Il soffice vento caldo mi scompigliava un po’, mi spogliava e mi toccava, mi bagnava le labbra, poi me le seccava. Inizia ad urlare, urlai. Invano. Ero nudo, mi toccavo per sentire se ancora ero vivo. Ero arrivato lì su uno scoglio, a fissare il vuoto, e pensavo che non c’era più niente da fare, non potevo più tornare indietro. Sapevo di lasciare ogni cosa, ma sicuramente quello che lasciavo era meno importante di ciò che desideravo: Evan.
Ed ecco che dall’alto osservavo le onde che scrosciavano. Avevo paura, non lo posso negare.
Quando la forza del coraggio mi stava portando a gettarmi. Quando ero perso e l’odio della gente mi stava regalando alla morte, quando la mia vita stava per essere venduta al miglior offerente, il mio compratore mi compro al prezzo più conveniente.
Evan mi afferrò per il braccio, io mi girai ed ero turbato, gli occhi miei erano sbarrati, i mie capelli venivano sputati dal vento nella mia bocca,lo guardai negli occhi. L’esperimento era giunto a termine. Capii l’amore. Lui si spogliò e il suo fisico appena scolpito mi ricordava quello del Doriforo di Policleto. Io lo toccavo e lui che arrossiva, io ero più eccitato di lui, mi sentivo davvero Uomo, il suo uomo. Questo era l’importante. Il prof, invitandomi a sdraiarmi su di lui sul freddo roccioso, mi guardava negli occhi ed io non potei fare a meno di salire su di lui. Ci stringemmo nel segno dell’amore, per sconfiggere il dolore. Per la prima volta diventai la sua Donna, per fortuna o per volontà di Zeus non fu neanche l’ultima.

Marzano Erika - quietriot

Mi ritrovai a scarabocchiare su queste parole che avevo appena scritto sul mio blocco d’appunti. Senza rendermene conto il tratto diventava sempre più nero, la punta della biro bucava la pagina e l’unica parola visibile ormai era “Addio”. Era lunedì mattina, faceva caldo, le lezioni erano riprese da poco ed Evan, in preda a un improvviso furor dovuto all’ennesima domanda stupida di quella ragazza scura di cui non ricordo il nome, era balzato in piedi d'avanti alla cattedra. Camminava avanti e dietro freneticamente, inveendo contro questa società borghese, utilitaristica, capitalistica che pensava e agiva a discapito della letteratura.
Tutt’ad un tratto si fermò. “Ma in fondo non è colpa vostra, nuova e ingenua generazione” la sua risata era sarcastica e amara. Non lo vedevo, tenevo gli occhi puntati sul mio foglio ormai in brandelli però potevo sentirlo. Così come sentii qualche risatina e commento acido provenire dai banchi dietro di me; mi voltai quindi verso di lui e vidi che stava sorridendo a quello strano ragazzo, Francesco; lui se ne stava zitto per la maggior parte del tempo seduto in fondo all’aula con la sua folta chioma riccissima e i suoi vestiti stile Woodstock. Non lo evitavo, mi faceva simpatia e spesso ci eravamo trovati seduti vicini perché durante le lezioni di Evan era solito sedere in prima fila d’avanti a lui. Notai il Professore accarezzargli dolcemente la mano noncurante dell’imbarazzante silenzio in cui era piombata la classe.
Disgustato cercai di resistere per tutto il tempo rimanente della lezione senza ascoltare una parola e senza muovere un muscolo. Non so se fosse gelosia o solo desiderio di possesso quello che mi stava invadendo. Sull’uscio cercai di essere tra i primi a uscire, ma la calca che si formava al termine delle ore era disumana e invece di risucchiarmi verso il corridoio, non faceva altro che spintonarmi e riportarmi in aula. Finii per essere uno degli ultimi e balzai fuori ma la sua voce mi richiamò indietro. Il suo accento straniero che pronunciava il mio nome… Riflettei a lungo sulla possibilità di non voltarmi e andarmene, far finta di niente e allontanarmi con nonchalance come se non avessi sentito. Ma ormai ero fermo d’avanti alla porta. Mi voltai e sempre tenendo lo sguardo fisso sul parquet mi avvicinai a lui, ad ogni passo stringevo i libri al petto sempre di più, tanto da togliermi il respiro. In aula ormai eravamo rimasti soltanto io, Evan e Francesco.
Le sue parole riecheggiarono nel vuoto.
“Ho dato a Francesco una lista di film da vedere e testi da leggere, vorrei che li analizzaste insieme. Siete gli unici del corso che mi seguono e che mi capiscono e non vorrei sprecare la vostra materia grigia”
Spostai più volte lo sguardo prima su Francesco e poi su di lui. Francesco mi stava tendendo la mano nella quale stringeva un foglio di carta.
“Fa anche questo parte dell’esperimento?” parlai come se in quella stanza ci fossimo solo noi due.
“Può darsi” mi rispose strizzandomi l’occhio

Miranda Francesca - Demetra in Cenere

Qualcosa mi scorreva lungo il braccio, per questo e per il dolore alla nuca esclusi l’ipotesi che fossi morto.
Intontito, schiusi gli occhi: ero immerso nell’acqua rovente di una vasca e mi crogiolavo nel vapore che sfumava pian piano verso il bianco soffitto. Da un lato della stanza qualcosa muoveva l’aria. Era Evan con un camice chiaro che girava attorno ad un comodino. Si sentiva un tintinnare di ferri, intravidi degli aghi, un movimento brusco… Serrai subito gli occhi fingendomi stordito, maledissi il professore con tutto il mio cuore palpitante di timore. Udii lo scorrere di una porta a scrigno e, solo, stavo morendo sempre più. Le braccia cadenti erano sorrette da corde allacciate ad un lavandino e ad una maniglia.
Evan, eri sempre stato negato per la manualità, sempre troppo impetuoso. E io riuscii a liberare un braccio con la stessa facilità di un bambino che scarta una caramella con una mano sola. Mi alzai sulle gambe barcollanti, sudavo.
Con l’energia della disperazione, spalancai la porta, corsi incontro ad Evan. Gridavamo e ci graffiavamo; ma io ero come il vento e il mare, implacabile e sordo. Mi ricordai della porta della cucina molto fragile e leggera, la travolsi. Evan mi seguii anche in strada. A piedi nudi sull’asfalto, corsi senza affaticarmi perché la paura di un tocco di Evan sulla pelle era maggiore della fatica. La gente mi guardava, rideva o strabuzzava, i barboni brindavano alla mia salute, qualcuno chiamò la polizia dopo aver visto alle mie spalle un uomo con un camice. Ma io ero una scheggia e mi allontanai sempre più finché la campanella dell’entrata di un pub del centro trillò e sentii per un istante solo l’odore di Flora, immediatamente la sua voce cercava di raggiungermi. Vedendomi fuggire per le strade tra luci ed ombre vestito solo dei pantaloni e rincorso da quel che sembrava un dottore, non ci pensò troppo e mi rincorse con i suoi tacchi rumorosi e la testa colma di domande. Correva più veloce di Evan, che con quel camice sembrava voler spiccare il volo, ora Evan accorciava la distanza… Poi un palo, un frastuono; piegai le gambe e dissi ancora “addio” al mondo.

E’ straordinario come in pochi giorni in cui smetti di esistere, i problemi si possano sbrogliare grazie alla vita lenta, ma riparatrice.
Ebbene, in un lettino d’ospedale, fu un piacere toccare i capelli di Flora che parlò e lacrimò:
“Marco… Ti sei svegliato!”
“Da quanto..?”
“Quattro giorni”
“Evan?”
“Sarà processato”
Sorrisi, lei mi si gettò sul petto e io la strinsi più forte che riuscivo.
“Flora,” Le presi la mano “Perché sei ancora qui, perché non hai penso le speranze?”
“Oh, Evan. Ti sbagli. Ho perso fino all’ultima speranza, mi è rimasto l’amore”
Così mi accarezzò e poi mi disse:
“Sai cosa ti ci vorrebbe, ora? Un bel viaggio a…”
“No!” La interruppi “Ancora un altro no! Ne ho avuto abbastanza!”
Risi, e anche Flora scoppiò in una dolce risata che faceva di lei qualcosa di gran lunga migliore di una fidanzata.



Myosotis


giorno,mi ero lasciato cadere nel bel mezzo della piazza che lentamente si popolava, sui candidi lastroni freddi e consumati da innumerevoli passi. Mi riuscivo a concentrare solo sui suoni di quel lento risveglio: rumori di scarpe che diligenti camminavano per chissà quale meta;abbaiare vicino e lontano di cani che seguivano fedelmente i loro padroni;cigolanti persiane che si aprivano alla luce mattutina;rumori e sbuffi di sforzi di panettieri intenti a sfornare pane che scrocchiava nella sua fragranza;rumori metallici di vecchie saracinesche di negozietti dimenticati. Fu proprio uno di quegli insoliti negozietti che catturò la mia attenzione:era piccolissimo,con un’insegna ormai sbiadita dal tempo di cui si intravedeva solo qualche lettera finemente intagliata nel legno scuro e straripante di fiori di ogni colore;solo allora le mie gambe ebbero la forza di alzarsi per condurmi lì dentro. Aprii lentamente la porta accompagnato da un soave tintinnio di campanelle che non fece voltare la piccola donna intenta nella sua coloratissima composizione. Girai lo sguardo a lungo fino a paralizzarmi su quello che sembrava un pezzo di cielo che caduto per sbaglio o per fortuna in quell’insolito posto. La donna si voltò e vedendo la mia faccia assorta disse:“fiordaliso..”
Fiordaliso, era questo il nome che Evan aveva sempre avuto nei miei sogni. Tutto era partito da quando una giovane e curiosa studentessa mi aveva spiegato il significato di quegli stupendi fiori blu lapislazzulo: leggerezza e felicità, primo amore;da quella scoperta lo avevo sempre ricollegato a quei fiori,alla sua leggerezza nei confronti della vita e delle situazioni difficili, alla felicità che mi aveva procurato in quei giorni,perché era il mio primo amore “diverso”. Tutti quei ricordi felici furono strappati d’improvviso dal nero dei petali di un fiore che,nella sua stranezza, era straordinariamente bello;con voce tremante chiesi: “che fiore è quello nero?” “L’elleboro?.. scelta interessante…-“commentò la fioraia ancora intenta nel suo lavoro. In quel momento non avevo dato peso alle sue parole:ero perso in quel nero profondo come i suoi occhi,come la paura che s’insinuava nel mio letto da bambino,come le emozioni che avevo provato fino a poco tempo fa,come il cielo buio di notte,la mia notte. D’istinto presi un vaso di fiordalisi e una di quel misterioso elleboro,mi avviai alla cassa fissando quell’insieme di colori:nero tutto intorno senza lasciare alcuno spazio alla luce,sottili linee e pieghe vellutate si susseguivano su quei petali ombrosi e cupi,più profondi dell’abisso mentre si mischiavano con sprazzi di un blu celestiale mai visto nei cieli più alti e limpidi. Volevo scappare e avrei portato con me un solo ricordo di tutto quello che era successo:quei fiori. Pagai velocemente mentre la ragazza sorrideva per la mia curiosa scelta. Uscii correndo di nuovo verso l’ignoto, sarei andato lontano da tutto quello.Addio, mi ritrovai a ripetere ancora una volta, l’ultima volta. Correvo, piangevo, scappavo tenendo stretti quei fiori: fiordalisi ed ellebori,la felicità di quel mio primo amore,la sua follia.


Ugona Matilde - Matildina


Corsi, corsi finché i miei polmoni scoppiarono e mi obbligarono a buttarmi a terra, su quella terra che tanto mio padre aveva amato. Quella terra su cui tanto da piccolo avevo corso a piedi nudi, giocando con rami che mi sembravano spade d’argento e con cortecce che mi parevan scudi invincibili, come quello del mio eroe Achille. Annusai l’odore della terra d’estate, quell’odore acre, ma al tempo stesso dolce, quell’odore di prato e fiori, quasi nauseante e, finalmente, dopo tanto tempo, urlai al cielo. Urlai tutto il mio dolore, tutto quello che non avevo mai detto a nessuno, nemmeno a Flora. Urlai talmente tanto che mi sentirono fino al paese vicino, feci abbaiare i cani, svegliai i neonati in fasce.
E improvvisamente, come un palloncino bucato da uno spillo, caddi a terra, privo di forze e così mi trovarono i sanitari dell’ambulanza chiamata da quelle persone che io stesso avevo svegliato con le mie urla.
Sono passati ormai tre anni da questa storia e io da allora sono rinchiuso qua dentro, qua dove mi portarono dopo un breve periodo di vane cure contro quella pazzia che mi divora da dentro. Nessuno conosce il motivo di questa follia improvvisa e nemmeno la cura. Forse solo io, ma è una cosa che nessuno potrà più darmi…la fiducia nell’Amore.


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MessaggioTitolo: Re: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyMar Mar 26, 2013 6:42 pm

Ops... mi era sfuggito qualche finale Sad inizio ad inserire quello di Disinfinito Cinque

Ecco, due giorni per mettere su carta tutti i moti tempestosi del mio animo. Avevo appena lasciato il mio bigliettino nell’ufficio di Evan all’università e ora mi dirigevo alla stazione per prendere il treno che mi avrebbe portato a Roma e poi in volo verso la Finlandia: il rettore mi aveva proposto questo progetto sperimentale già da tempo, ma non l’avevo mai preso in considerazione perché avevo troppi motivi per non partire, invece ora era tutto diverso.
Fuggivo come avevo fatto più volte in questo ultimo periodo, ma stavolta sapevo il motivo della mia fuga: capivo ciò che ero e lo stavo finalmente accettando, mi sentivo diverso ma finalmente libero di seguire me stesso. Però ero consapevole che non era questo il luogo giusto, la città, l’università non erano pronte per vedermi trasformato, poi per chi mi avrebbe dovuto aiutare non riusciva a starmi vicino con sincerità, per chi ero fallimento, per chi ero rovina, per chi ero strumento, per nessuno potevo essere semplicemente un uomo che ha finalmente trovato la sua strada.
Finalmente il tanto aspettato treno arrivò, un saluto di spalle ad Orvieto che incurante andava avanti, un viaggio sonnacchioso tra una pagina del programma e uno sguardo al paesaggio, Roma, Pulmino, Ciampino, check-in, controlli, bagagli.
Aspettando l’imbarco rimango a fissare quel cielo così azzurro che mi accompagnerà in questo nuovo viaggio, e una lacrima all’improvviso scende sul mio viso di viaggiatore: non era un prodotto del pentimento, ma della consapevolezza di lasciare una piccola parte di me, al mio Fiordaliso l’unico che nonostante tutto mi ha fatto sentire, anche se per poco, anche se con false verità, amato per ciò che veramente sono. Grazie Evan, tu sarai sempre azzurro e libero come l’immensità del cielo ma ci sono squarci neri e infidi nel tuo cuore che mai riuscirò a comprendere. Una voce metallica annunciò il mio volo, asciugandomi il volto andavo deciso e speranzoso verso un futuro migliore lasciandomi indietro le lacrime dei giorni passati.
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MessaggioTitolo: Re: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyMer Mar 27, 2013 9:58 am

Alessia Angelini - Phos



Inseguito dai pensieri, mi fermai solo quando fui convinto d'essere arrivato alla fine del mondo.
Un conato di vomito. Tossii, sputando fuori qualche goccia di tutto quel nero che mi stava divorando l'anima e la razionalità. La lingua ne sembrava a tal punto incatramata che avrei potuto perdere la parola per sempre.
Non tentai di riconoscere il luogo. I lampioni erano spenti, le sagome si frammentavano tra le ombre. Vigliacco. Appoggiai la fronte sulle nocche. Come ogni volta che tentavo d'ordinarle, le parole si accavallarono tra le sinapsi, gridando come prigionieri diretti ai Piombi. Dei sospiri me ne occupai io.
Un esperimento.
I miei sospiri, in spiaggia.
Ma allora, non mi vuoi più bene?
Un sospiro, di Evan, quando aveva capito d'aver vinto.
Cosa vuoi?
Caddi.
Sapevo che saresti venuto.
Ennesimo conato. Mi piegai in avanti, mentre il corpo subiva gli spasmi della nausea. Riaprii gli occhi solo quando fui certo che non avrei buttato l'anima lì, sulla pozzanghera che cercava una luna in cui riflettersi - senza successo. Mi chiesi, inutilmente, se si trattasse di novilunio o di eclissi.
Guardati, miserabile.
Affondai le dita nell'acqua sporca. Quando le alzai, lasciai che gocciolando versassero lacrime di sobborgo sui miei vestiti, sulla camicia spiegazzata, sui jeans. Che piangessero al posto mio. Che da piccolo non ne sembravo capace.
In quel non-luogo cercai affannosamente di autogiustificarmi. Ogni tentativo era liquidato con una grassa risata da quella che immagino la coscienza. Perchè la mia era stata la più banale delle fughe.
La fuga da se stessi.
Dunque non ero tutta quest'originalità, forse ero solo il più miserabile degli idioti sulla faccia della Terra...
Se non fosse stato per quel dettaglio curioso...
Se non fosse stato per l'attimo in cui mi resi conto d'esser stato sicuro d'aver raggiunto i confini ultimi della Terra.
Mi stesi sull'asfalto, con le mani in tasca.
Ero più furbo della pozzanghera, perchè avevo capito che la luna non c'era. E che per quella sera non l'avrei trovata.
A volte il tempo si dilata. Abbastanza da permetterci di portare avanti i nostri bilanci. Contabili annoiati, con troppe scartoffie davanti.
Contabili che avrebbero bisogno di dare un nome al colore della loro scrivania...
Sai che il tuo silenzio vale più di mille parole, vero?
Appunto, taci, mimai con le labbra. Senza la foga che m'aveva spinto giù per le scale, nel tentativo di dimenticare me stesso.
Forse ero sotto incantesimo, o c'erano ancora recettori a studiarmi.
Occhi aperti, chiusi, nessuna differenza. Avvertii un ronzio dal lampione più vicino. Certo, pensai sarcastico, ora si accende come nel più scontato dei film. Il protagonista fa chiarezza su se stesso e l'elettricità lo sottolinea. Fa', se proprio devi.
Ovviamente non s'accese. Mi trattenni lì ancora per un minuto. Poi mi sollevai.
Non accennava neanche a farsi giorno.
Con un'occhiata alla tenebra che m'aveva ospitato, me ne allontanai. Sentivo l'eco di passi antichi, dietro i miei. Le mie scarpe, blu, inglesi, volevano tacere.
Immaginai il lampionaio che s'arrampicava alla ricerca della sua avventura quotidiana.
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MessaggioTitolo: Re: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyMer Mar 27, 2013 11:37 am

Costanza Pero - Rihnavy


Dopo quel giorno, ho rivisto Evan altre sei volte. Ritornai, perché dovevo capire da cosa dovevo scappare e se dovevo farlo.
L'ho abbracciato, accarezzato, amato, per altre sei volte...e il disgusto di quell'eccitazione mi rimane ancora sulla pelle.
Evan era malato. Era malato sentimentalmente,intendo. Di quei malori causati solo da un bene forte, schiacciato da un male altrettanto forte.
Di quelli che ti impregnano il cuore di odio che, capirai soltanto dopo, era tristezza, dolore.
Evan non aveva pace.
Evan era un ateo di emozioni, perché di emozioni a lui ne erano state negate tante.
Evan era un groviglio di parole sconnesse, di fatti sconnessi, di sentimenti sconnessi, di un corpo sconnesso.
Evan era omosessuale e questo già lo sappiamo, ma gli era stato negato di esserlo, di esserlo interiormente.
Niente minacce, niente offese, solo silenzi.
Quei silenzi che solo a pensarci svuotano anche te completamente.
Non avevo idea del suo dolore, neanche un accenno. Scoprii tutto il quinto giorno insieme.
Il suo diario era sulla scrivania, quando lo aprii. Sfogliai le pagine e mi soffermai sulla prima. Riportava la data di otto anni prima.
C' era scritto:
"Caro corpo che ancora sostieni la mia testa, disgregati se puoi.
Ho detto loro tutto, in fondo sono i miei genitori e dovevano saperlo. Ma lo sai che son codardo e invece di dirlo, l’ho scritto. Ti ricordi la carta da lettere color avorio? la mia preferita? Ho usato quella. Ho scritto loro la mia convinzione di quello che sono e l’ho fatto nel modo più gradevole possibile. O almeno ci ho provato.
Gli ho scritto che a tener tutto dentro si rischia di scoppiare, che a volte è meglio parlare anche se quel che dici non va bene. Ci ho provato in tutti i modi, sul serio.
Ebbene io che son codardo, due giorni dopo aver mandato la lettera, ho capito che tanto codardo poi non ero.
Sai cosa hanno fatto? Mi hanno mandato una lettera di rimando..ah no, che dico, un bigliettino! E sai cosa diceva?”NON POSSIAMO”. A caratteri cubitali. Come se le sole parole non bastassero. Se ne sono anche andati. Scappati.
Da quella volta più niente.
Quindi: Caro corpo mal funzionante che ancora sostieni la mia testa ingrata, disgregati se puoi.”
Quello di Evan era un mondo a parte e chi meglio di me può capirlo! Ma ciò che mi distingue da Evan è la forza di andare avanti, che dovrebbe accomunare un po’ tutti.
Evan non solo non era stato accettato da chi gli era più caro, Evan non si accettava, e gli esperimenti consistevano in questo.
Cercava di capire da dove provenisse la sua diversità. Se omosessuali si nasce o si diventa, quindi se il suo “io” era vero o era falso.
Era cosi ossessionato, perché ossessionato è la parola giusta, da usarmi!
Ma a me è capitata la parte migliore, perché è ad Evan che è toccato il peggio.
E’ lui che non sa chi è e chi vuole essere , quindi, quando gli ho sbattuto la verità in faccia, e mi chiede: “Tu sai chi veramente sei?” gli rispondo: “Mi chiamo Marco e sono omosessuale.”
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MessaggioTitolo: Re: Proposte di finale    Proposte di finale  EmptyGio Apr 11, 2013 8:10 pm

Feldia (o Faida?) ha scritto:
Scelto il finale dalla commissione!

Prossimi step per gli autori di post e finale:
- scegliere il titolo per il racconto in rete
- effettuare, se necessario, l'editing del racconto (usate il topic per discutere sui post per preparare l'editing)

Mi raccomando! Tutto entro giovedì 18 aprile!


La spiaggia era quella di sempre. I ciottoli neri che per tante stagioni erano stati testimoni della mia adolescenza ancora una volta luccicavano al chiarore della luna. Pochi minuti ancora e il sole dell’alba avrebbe accarezzato i nostri corpi stanchi ed assonnati, rannicchiati sotto il plaid colorato. Fredda era stata la nostra estate. L’ultima.
Stava finalmente terminando l’ultima notte delle nostre maledette vacanze: desideravo solo ripartire e scappare da lei e da quel piccolo paese calabrese della costa tirrenica dove mi ero sentito soffocare.
Tre settimane prima io e Flora, la mia ragazza di sempre, eravamo partiti da Orvieto con la speranza di ritrovarci.
Tre settimane di discussioni, di paure e di notti insonni.
Il sole iniziava ad essere alto. I miei occhi erano stanchi, gonfi per le lacrime versate tutta la notte. Flora, che non si dava per vinta, si strinse ancora più forte a me. Cercò le mie labbra per un improbabile bacio. Allora avvertii la sua disperazione dalle mani tremanti, le stesse che un tempo mi bastavano per essere felice. Un po’ alla volta, sentivo il suo abbraccio farsi sempre più debole e avere in sé il sapore della sconfitta e della delusione per un altro rifiuto. Sicuramente l’ultimo.
Basta, non resistevo più. Ormai non sentivo più niente per la donna che fin dagli anni del liceo avevo amato e desiderato più di qualunque altra, Dio solo sa quanto.
Ma la mia mente era già altrove. I miei sensi erano inesorabilmente rapiti da lui. Il pensiero di rivederlo non mi dava pace.
Ritornare a casa e confessare alla mia famiglia che ero diventato un “diverso” mi dilaniava e allo stesso tempo mi esaltava. Continuavo a chiedermi se diverso lo ero sempre stato o se lo ero diventato dopo aver incontrato lui.
Mio padre m’aveva sempre detto che studiare non mi sarebbe servito a nulla.
Ma lui era un vecchio campagnolo, una di quelle persone che è impensabile stare ad ascoltare. Ripeteva: “il cervello non serve a nulla, figliolo, le palle, sono le palle quelle che servono per sopravvivere a questo mondo!”
Possibile. Ma queste tanto rinomate “palle” non le aveva neanche lui. Aveva solo le braccia. Braccia per lavorare, per costruire una famiglia e un futuro.
Anche riguardo al futuro aveva idee sue, idee balorde da contadino, come la convinzione che a nulla serva lo studio, bensì solo il duro lavoro, così come la famiglia e i figli; convinzione che presto però m’aveva spinto tra le braccia del presunto amore della mia vita; quella ragazzina piccina, tanto bella, non fosse per quell’ustione violenta al viso…
Se lo avessi ascoltato forse sarebbe stato meglio.
Niente università, solo olio di gomito. Niente libri, niente professori… né quel professore. Né le sue labbra, né la sua voce.
Né sogni a turbare quelle notti che prima m’avevano sempre taciuto.
Ecco, a dirla tutta, la bocca ai sogni l’avevo tappata io perché parlavano troppo.
I bambini di solito hanno paura del mostro sotto il letto, io di notte temevo un uomo nel mio letto. Lo vedevo entrare sotto le lenzuola che mia madre aveva già da ore rimboccato e me le scompigliava tutte, voleva delle cose brutte da me, le stesse cose che una volta avevo visto fare a papà nel bagno. Quell’uomo credevo fosse l’uomo nero che la nonna mi diceva abitasse in cantina, ma se avessi raccontato che lo sognavo così spesso mi avrebbero dato del fifone. In ogni caso, pensandoci ora, aprire la bocca sarebbe stato sconveniente.
Solo con Flora lui stava zitto, credevo avesse paura del mio amore per lei oppure che non gradisse granché i suoi seni. I suoi seni così morbidi avrebbero spaventato chiunque, potevi solo tremare all’idea di toccarli.
Non voglio più tremare, adesso.

Ciò non toglie che fu difficile, dannatamente difficile, separarmi da lei, nonostante non potessi più chiamare “amore” quel dolce sentimento che, inesorabilmente, ci teneva allacciati.
Non ne sono sicuro, ma immagino si trattasse di quello strano senso di affetto che l'abitudine, dopo un po', inculca nella testa alle persone che un tempo sono state innamorate, e che hanno giurato all'amante di rimanerlo per tutta la vita.
Ancora ricordo quei grandi occhi verdi, luminosi di lacrime e tenerezza, speranza e sofferenza, quando, con coraggio -e probabilmente poco tatto-, le dissi che pensavo di essere omosessuale.
Parlavo, cercavo un appiglio, una scusa, un qualcosa, ma la voce mi si spezzò in gola all'udire quelle dolci e straziati parole provenire dalle sue labbra; quelle parole che, più ancora delle note d'amore pronunciate nei momenti dell'estasi suprema, per sempre porterò nella mia anima:
"Allora, non mi vuoi più bene?"
Ma come nell'anima porto quella sua domanda, ancora non dimentico i minuti che seguirono. Cosa dovevo risponderle? Dirle la verità le avrebbe spezzato il cuore, mentirle sarebbe stato un doppio peccato. La baciai un'ultima volta sulla guancia, e quel bacio aveva un sapore agrodolce, come un'arancia non ancora matura. Uscii dalla camera, senza dirle niente. Lei non provò a fermarmi: come fareste voi a fermare un fiume che rompe gli argini, la pioggia che picchia sui vetri delle finestre con un suono simile alle note acute di un pianoforte, un tornado che porta via con sé tutto ciò che incontra per strada? Io, in quel momento, certo non ero arrabbiato, e non ero carico di distruzione come quegli elementi, ma, come loro, sapevo bene qual era la mia strada. E dove essa mi portava: in stazione, per tornare là dove volevo essere; dalla persona con cui davvero volevo stare. E sapevo che, sceso dal treno, l'avrei trovato là ad aspettarmi.

“Ciao”.
Adoravo la sua voce. Era così calda, sensuale, forte come le braccia che subito mi strinsero. Mi ricordavano tanto quelle di mio padre, ma certo i muscoli di Evan mi attiravano molto di più.
“Pronto per partire?”
Annuii. Mi liberò dalla stretta e mi diede una pacca sulla spalla. Mi sussurrò all’orecchio delle parole, ma il fischio del treno le mangiò.
Salimmo in macchina. Quasi sprofondai nel sedile vecchio e consunto della Fiat Punto, ma mi piaceva quell’ambiente accogliente nel quale i nostri corpi potevano sfiorarsi senza che dessi libero sfogo ai miei desideri più intimi.
Non sapevo dove mi stesse portando, ma con lui sarei andato anche in capo al mondo.
“Siamo arrivati”, annunciò non appena vedemmo la costa che si stagliava all’orizzonte, subito dopo un tornante. Una spiaggia, questa volta di sabbia fine.
A quanto pare è destino che le mie storie abbiano sempre il mare come testimone.
Scendemmo dall'auto e lui mi sorrise incoraggiante, invitandomi a seguirlo: era così evidente l'ansia che stavo provando? Cercai di sorridere a mia volta, seguendolo sulla spiaggia, affondando le scarpe in quella soffice sabbia.
"Ti piace il mare?" chiese.
“Beh…” iniziai, scrollando leggermente le spalle " Sono cresciuto in campagna… e ci vado solo d'estate, con Flora..." Quasi mi morsi la lingua per aver nominato il suo nome.
“Sì, me la ricordo…Me l’hai presentata un po’ di tempo fa.”
Si voltò a guardarmi dritto negli occhi. “E come sta? Non eravate partiti insieme?”
Lo avevo informato del breve viaggio che avevamo intenzione di fare, ma ero stato molto vago… Poi, all'ultimo momento, gli avevo chiesto di venirmi a prendere in stazione.
“In effetti…ci siamo lasciati.” Evan assunse un’espressione di sorpresa.
“Oh…Mi spiace. Stai bene, vero?”
“Io…” lo interruppi. Questo sembrava il momento giusto per essere chiari con lui.
All'improvviso però venni sconvolto da un freddo brivido d’incertezza. Il vento e la salsedine sulle mie guance accennavano piccole carezze, io non pensavo a nulla, ero quasi assente. Lui mi guardava ed io sorridevo.
Non capivo più niente, a momenti non sapevo cosa dirgli, più la sua calda voce si avvicinava alle mie orecchie, più io mi sentivo diverso, mi sentivo me stesso. Decisi che era il momento di confessare tutto.
Da dove cominciare? Osservai attentamente la sua mano indugiare in una tasca della giacca marrone, e poi nell’altra, finché non trovò un pacchetto di fiammiferi e uno di Marlboro. Sorrisi al pensiero che probabilmente fosse l’unico fumatore al mondo a non possedere un accendino. Tirò fuori dal pacchetto bianco e rosso una sigaretta e l’accese. Inspirò.
“Lo sai che il tuo silenzio vale più di mille parole, vero Marco?” Domandò, dopo aver elegantemente soffiato fuori il fumo.
Percepii un brivido alla schiena sentendo come pronunciava il mio nome con quel suo velato accento straniero.
“Credevi che non l’avessi capito?”
Continuavo a starmene zitto, lì a pochi passi da lui. I miei occhi, fissi sul cerchietto appeso al suo lobo sinistro, si spostarono poi sulle labbra che sfioravano appena il filtro giallo della sigaretta. Ricordavo ancora le emozioni del primo giorno di corso, quando le risatine delle mie colleghe avevano sancito l’approvazione di quel giovane professore.
Infine si voltò e mi sorrise.
“Immagino tu voglia una risposta da me, a questo punto”
Mi poggiò una mano sulla spalla.
Fu lo stesso tocco che mi sorprendeva nei mesi prima, durante le ricerche a casa sua. Appoggiava la mano sulla mia spalla quand’ero colto dalla stanchezza e negli ultimi minuti prima di congedarci.
Aver accettato di svolgere una ricerca universitaria al suo fianco aveva aumentato la mole di studio, ma mi ero entusiasmato sin dal principio. Ricordo con dolcezza i pomeriggi di ricerche: trascorrere con lui quel tempo mi aveva permesso di scoprire un tesoro luccicante nel suo animo. La cultura, gli ideali e tutto il sapere che mi regalava gli conferivano fascino e giovinezza. Evan descriveva il mondo antico come se l’avesse vissuto, come se fosse stato il confidente delle grandi personalità del tempo. Non mi arrestavo mai dal porgli domande, anche indiscrete come… come l’amore greco. Indiscrete, ma a suo parere perspicaci. Anche lui si era affezionato a me, lo sospettavo.
Ora bramavo solo di sfiorare la sua mano con la mia.
Gettò il mozzicone di sigaretta nella sabbia, affondandolo con il piede. Io lo guardai negli occhi, quegli occhi neri come il cielo notturno in cui vedevo le fiamme ogni volta che mi rivolgeva uno sguardo. Sentii nel mio cuore uno strano tepore: non sapevo esattamente cosa fosse, forse amore, oppure semplice ammirazione. No, certo che no! Era molto di più.
Avvicinò una mano alla mia guancia e cominciò ad accarezzarmi con il pollice. Mi si accostò, chiudendo gli occhi. Li chiusi anch'io. Era a pochi centimetri dalle mie labbra, i nostri respiri erano uno solo, le sue labbra calde toccarono le mie delicatamente.
Il nostro fu un bacio semplice e casto, le nostre labbra si toccarono appena.
Baciando Flora, le prime volte, avevo sempre avuto la mente sgombra. Nessun pensiero a punzecchiarmi, solo una grande sensazione di morbidezza.
Ora, con la bocca gentile di Evan premuta contro la mia, non riuscivo a creare il vuoto nella mia testa. Mille ricordi -sì, di Flora- mi invadevano il cervello, impedendomi di godere appieno di quel contatto che avevo tanto desiderato. Quando il professore si allontanò da me, ebbi l’impressione di avere immaginato tutto.
Lo fissai un attimo, disorientato. Non mi sarei mai aspettato che agisse in quel modo, non avrei mai sospettato che lui, che davvero lui…
Ma non avevo sognato tutto, non era possibile: sentivo sulle labbra la freschezza del suo bacio che s’amalgamava alla brezza salmastra, e sul viso ancora il ruvido contatto della sua pelle.
Mi portai una mano alla bocca, senza parlare. Evan rise.
“Io… io non credevo che…”
“Marco, ascoltami.” Mi interruppe lui “Ci sono delle cose che dovrei spiegarti…”
Forse fu da quel particolare che mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, oppure dalla risata, troppo lunga e troppo soddisfatta.
O forse fu dal modo in cui mi guardava, come se fossi un acquisto raro che si era appena accaparrato.
“Sì… decisamente” balbettai “Insomma, lei…come ha capito che…”
“Capire è il mio mestiere, ma la parte che adoro davvero è mettere a frutto quello che capisco.”
Si inumidì le labbra, le stesse che fino ad un attimo prima erano premute sulle mie. Un attimo o un secolo?
“Stai tranquillo, nessuno lo saprà mai, se accetti di collaborare ad un esperimento.”
Una strana sensazione investì le mie vie respiratorie- come se tutta l’acqua che si infrangeva ritmicamente sulla spiaggia si fosse incanalata all’improvviso nella mia trachea.
“Non credo di capire.”
“E io che ti credevo uno dei più svegli del corso.”Fui colto da uno stordimento improvviso, come se il mondo avesse preso a girare vorticosamente. “Non sei né il primo a essere incappato nella trappola né tantomeno il più carino” Mi afferrò il mento con tono canzonatorio “Ma si può contrattare. Ti ho accennato ad un esperimento, no?”
Sorrise, quasi ridendo tra sé.
"Ti sei mai fermato a riflettere su cosa siano i sentimenti? Beh, lascia stare l'anima, il cuore e tutte quelle cose là. Quello che noi chiamiamo sentimento altro non è che un insieme di impulsi nervosi e ormoni. Ora, con tutte le forme di energia che l'uomo sfrutta, perché dovrebbe ignorare proprio questa? " mentre parlava allungò una mano per accarezzarmi di nuovo. Mi scostai, ora inorridito dalla sua vicinanza.
"Aspetta, lasciami finire. Diciamo che questo esperimento si basa su uno scambio di favori... e di piaceri. Tu desideri la mia persona e io credo che cose di questo genere accadano continuamente nel mondo. Io faccio questo favore a te e in cambio ne ricevo un altro. Si crea così una specie di rete destinata ad espandersi... Potenzialmente potrebbe coinvolgere tutto il mondo!"
"Lei vuole solo sfruttare i sentimenti per rendere schiavi gli altri! Io... io..."
"Mi consideri un mostro, vero? Dammi almeno il tempo di illustrarti quel che ti chiedo".
Un turbinio di emozioni, sensazioni e immagini mi investì la mente e il corpo: ero tentato di girarmi e fuggire da quel sogno distorto, correre lontano, prendere il treno e tornare in città.
Sarebbe però stato un inferno rivedere gli occhi di Flora per non parlare della reazione che avrebbe avuto mio padre: “Ecco, il mio unico figlio un frocio doveva essere! Ah, ma lo sapevo io che tu dovevi rimanere qui, nella tua campagna! E invece no, dovevi studiare, dovevi andare all’università per prendere un pezzo di carta e diventare ricchione! Ma cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Razza di…” Ed è meglio fermarsi. Inoltre non sarebbe stato tanto più facile sopportare i visi stupiti degli amici e le risatine maliziose della gente in facoltà.
In pochi secondi l’unica domanda che restava nella mia mente era una sola.
E la risposta sembrava scritta in quegli occhi ormai diventati quasi insopportabili.
“Cosa vuoi da me?”
"Semplice. Marco, io ho bisogno di te e tu ne hai di me. Cosa c’è di male nell’aiutarci a vicenda?”
“Sia chiaro.” Il mio tono si fece più freddo e, davanti a me, l’Evan dei miei sogni tanto taciuti, dei sentimenti soffocati così a lungo, delle notti passate a tormentarmi per quell’amore sbagliato, si sgretolava ad ogni parola. Mi sembrava di stare di fronte a un estraneo adesso: fino a pochi minuti prima, invece, Evan era la persona che credevo di conoscere più a fondo; ma l’avevo immaginato diverso da quello che era.
“Ti chiedo solo di venire da me qualche volta a settimana e di lasciare che io misuri alcuni livelli del tuo organismo in particolari situazioni. Si tratta di piccole ventose che collegherò in alcuni punti del tuo corpo e poi un prelievo del sangue. E in cambio mi avrai, completamente tuo, Marco.”
Completamente tuo. Rabbrividii.
“Cosa vuoi?” ripetei, ma in silenzio e a me stesso, questa volta. Cosa volevo realmente?
Mentre quella domanda rimbombava inutilmente nel mio cranio, aprii la bocca e trovai una voce troppo arida per pronunciare alcunchè. Succede, quando vedi le tue aspettative polverizzarsi. Diventano polvere anche le corde vocali.
"Quali situazioni?"
Completamente tuo. Completamente tuo, Marco...
La sua risata danzò sinistra nell'ombra di una giornata che si scuriva sempre più in fretta. Quando mi rispose, avvertii nella sua frase tutta la malizia che m'ero abituato a riconoscere, in facoltà, anche nei concetti che si direbbero meno ricchi d'interpretazioni, più insospettabili. Ma era macchiata, da quel che d'incapibile che aveva l'uomo davanti a me, una marionetta, la brutta copia dell'Evan che avevo imparato ad apprezzare.
"Non riesci proprio a immaginarle?" mi canzonò, un sorriso demoniaco sulla piega delle labbra... Le sue labbra... Promesse mute, ben poco caste.
Mi guardò, prima di allontanarsi - "Sai dove trovarmi" - i suoi occhi neri erano più imperscrutabili del mare.
Restai lì. Ancora una volta, alla deriva. Un relitto...
Cosa vuoi?

Allora capii, o meglio, ammisi a me stesso ciò che avevo sempre voluto.
Fissai il mare, perfino le onde sapevano la mia risposta.
Evan si era allontanato, quando si girò, anche a quella distanza vidi un lampo di consapevolezza sul suo volto.
Risi, sciogliendo la tensione nervosa che avevo accumulato, sentendo l'odore di salsedine scendermi in gola, fino ad invadermi i polmoni. La risposta era così, dolce e dolorosa, invadente come il vento che agitava le onde.
E se me ne fossi pentito? Ero pronto ad accettare tutto ciò che quel "sì" comportava?
Erano state le risposte a queste domande a fermarmi. Avevo paura di affidarmi totalmente a lui, di rimanerne ferito, come tutti i soliti innamorati. Strano, con Flora non avevo mai avuto tutta quest'incertezza, forse ero convinto che per lei fosse impossibile ferirmi, nella sua estrema e romantica delicatezza.
Dovevo fidarmi, o sarei rimasto nella prigione grigia dell'indecisione per troppo tempo.
In fondo, la soluzione non poteva essere più semplice.
Così feci quello che ero in grado di fare meglio: improvvisare. Sapevo così bene dove andare. Preso da un fervore febbricitante abbandonai la spiaggia e le sue onde leggere. Corsi giù per la strada a perdifiato. Non avevo la macchina ma ero ancora in tempo per il treno, l'ultimo di quella giornata. Arrivai senza nemmeno accorgermene, uscì dalla stazione e fui immediatamente travolto dall'odore penetrante della città. Le ombre della notte iniziavano a sciogliersi sull'asfalto e le luci al neon dei locali si accendevano ronzando. Mi infilai in un vicolo che conoscevo fin troppo bene e bussai alla prima porta a sinistra.
C'era odore di urina, odore di urina e di pesce fritto in quel vicolo e quello strano sapore di bagnato che di notte entra nei vestiti e si attacca alla pelle.
Forse sarei dovuto scappare, forse mi sarei dovuto davvero girare e andarmene, ma i pensieri sembravano crollare come un castello di carte e avevo il fiatone pur avendo le gambe inchidodate all'asfalto. E mentre tentavo di controllare i conati di vomito che iniziavano a salire come l'alta marea, la porta si aprì.
Il suo orecchino brillò alla luce sinistra della notte ed il suo sorriso mi pugnalò in pieno petto. La grande nausea.
Dentro era tutto veramente buio e confuso, ora sentivo il corpo di Evan che premeva il mio contro la semplice parete.
In quel momento tutti gli incubi, le paure, le incertezze, i sogni erano rinchiusi lì nel buio profumato di quella stanza. Era impossibile fare altro, pensai, e pur avendo mille domande senza alcuna risposta non mi fermai, non perché credevo che fosse la cosa più giusta da fare ma perché sapevo che in fondo era un po’ quello che volevo.
Quante cose mi venivano in mente, anzi no, mi vennero in mente solo dopo, quando mi resi conto che avevo fatto quello che avevo fatto e che, per qualche nascosta ragione, ero convinto che l’esperimento non aveva avuto luogo.
Alla vista di Evan che giaceva tranquillo accanto a me fui travolto dal panico: cosa nascondeva quella notte? E quel gesto senza più alcun senso?
Chiusi la porta e scappai da ogni cosa: dal dolore di Flora, dalla gioia di vedere Evan, dal terrore dell’esperimento, dalla stanza buia, dalla mia diversità, da quella folle notte.
Scappai perché nulla aveva senso, nemmeno quella fuga rocambolesca.
Ho visto i più alti spiriti della mia generazione sgusciare via da strutture universitarie in acciaio vetro cemento per attraversare come meteore liquide il firmamento delle glorie tramontate del lavoro coatto e dell’alienazione cartacea e deforme, poi cadere rovinare seppellirsi fino alle spalle sotto litri e litri di vergogna infangata da capoufficio traballanti, contratti senza margine e senza valore, tirocini deformativi in locali tappezzati dei manifesti della rivoluzione studentesca, senza mai urlare né guardare, scorticare o piangere le formazioni accademiche sfumate via nel passato rapace che tutto ingurgita e nulla tace; addio fiordaliso, addio, non c’è niente di più conturbante delle profondità del tuo sguardo color della notte, niente di più lancinante delle altre cose che ho strappato e mai avrò di te, e rimarrò seduto sotto le fierissime mura del palazzo del tuo cuore, con gli occhi ciechi bruciati a implorare il folle guardiano.
Resterò, fino alla fine di sempre, zoppo dell’amore lusinghiero e infido e nero.
Addio.


Autore finale selezionato: Simona De Bellis, Simona 2.0

Fu questa l’ultima parola che pronunciai prima di compiere, tra le lacrime, un gesto che tutt’ora non mi perdono.
Tornai controvoglia in quello stesso vicolo, determinato a risolvere il problema per la prima volta in vita mia.
Era stato lui a chiamarmi, lui mi aveva dato ancora una volta l’occasione per fare ciò che mai avrei pensato di fare.
Ad un semplice tocco della mano la porta si aprì, svelando nella penombra la figura di Evan, seduto a gambe incrociate sulla poltrona al centro della stanza.
“Ti stavo aspettando” disse, mentre un ghigno si disegnava lentamente sul suo volto.
Rimasi sulla soglia, incredulo di aver avuto il coraggio di presentarmi nuovamente lì, a casa sua, dopo ciò che era successo.
Portò il whisky alla bocca lentamente, senza smettere di osservarmi accigliato. I cubetti di ghiaccio tintinnavano scontrandosi ad ogni sorso.
“Accomodati” sussurrò indicando il divano accanto a lui.
Finalmente mi mossi. Mi sentivo una marionetta che obbedisce ad ogni comando del padrone, in sua balìa.
Accese una sigaretta. Mi accorsi che eravamo al buio osservando il rosso del tabacco che bruciava.
“Perché mi hai chiesto di venire?”
“Scommetto che saresti venuto lo stesso, non è vero? Di cosa vuoi parlarmi?”
Mi capiva al volo. Con lui mi sentivo sempre con le spalle al muro. Forse l’unico modo per uscire da quella situazione era fare qualcosa di cui entrambi ci saremmo stupiti.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“Un thé”
Lo seguii in cucina. L’idea mi venne all’improvviso. Un rumore sordo ruppe il silenzio della casa, presi con cautela l’oggetto caduto e lo rigirai tra le mani, contemplandolo.
“Allora, mi aiuterai con l’esperimento? So che vorresti ripetere l’esperienza dell’altra volta, non mentire a te stesso… ti chiedo solo di poter applicare delle ventose sul tuo corpo. L’esito dell’ultimo esperimento ha dato dei frutti, ma mi serve un’ulteriore verifica per poter procedere. Poi… beh, vedremo. Potresti non servirmi più, ma se proprio non puoi fare a meno di me, ti concederò di diventare mio assistente”.
Scoppiò in una fragorosa risata, sicuro di avere il controllo della situazione.
Ma ero io ad avere il coltello dalla parte del manico… letteralmente.
I miei passi rimbombavano incerti sulle mattonelle, la sua schiena era sempre più vicina, sentivo il suo odore, ero a pochi centrimetri da lui… un colpo netto, senza esitazione, un altro colpo, ancora, e ancora… Mi fermai solo quando il suo corpo si accasciò al suolo con un solo gemito, rovesciando il pentolino al quale si era aggrappato. Il suo braccio divenne rosso, ma ormai poco importava.
Portai il coltello con me: un trofeo, la prova che da allora in poi avrei potuto tutto.

Come quella sera, anche ora rigiro la lama tra le mie mani. Come quella sera voglio dimostrare che posso tutto, anche all’interno di queste tre mura, dietro la grata. Come quella sera voglio fare una pazzia. Come quella sera sono pronto a trafiggere un corpo da parte a parte, questa volta per capire cosa ha provato Evan.
Addio.
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